Lei si rivolse pensierosa verso l'esterno del veicolo, sussurrò perplessa:
- La Woolf? Forse è così...
Una lucina si accese, erano entrambi su un binario morto, bisognava uscirne al più presto. E anche se avesse voluto continuare su quella strada e infierire su di lei, gli bastò guardarla per un attimo di profilo, per accorgersi che gli stava succedendo qualcosa di talmente nuova da lasciarlo disorientato e disarmato: si stava innamorando di lei. E credette che la cosa fosse reciproca quando, voltandosi, offrendogli il suo tre quarti, gli chiese:
- E tu, come ti chiami?
Si, lui come si chiamava? Rimase incerto, non gli sovveniva più, rischiava di apparire ridicolo.
Il resto del viaggio trascorse fra i suoi occhi che lo fissavano tra un battito di palpebre e l'altro, le sue parole che non percepiva più distintamente e le pietre miliari che inesorabilmente li avvicinavano alla loro destinazione.
Arrivati, quasi stordito, inebriato, le chiese di vederla ancora, lei gli scrisse il suo indirizzo sul palmo della mano e gliela strinse, mollemente.
Appena a casa, le aveva scritto subito, ogni giorno, senza ricevere però alcuna risposta. Pensando a lei, aveva riiniziato gli studi interrotti, ora voleva avere qualcosa da offrirle. Lui che diceva che la vita in fondo non vale la pena di essere vissuta, perché la verità della vita è la morte, tanto valeva quindi togliersi dai piedi il più presto possibile, senza far troppo rumore per non disturbare nessuno.
Il pensiero di lei lo aveva cambiato, perché, come dicono i mistici, solo l'amore può redimere.
Con le sue lettere la inseguiva ogni giorno, sentiva che gli sfuggiva. Lei era la meta, e questa si spostava sensibilmente ogni giorno. Le sue lettere erano funi di parole che li legavano, che le impedivano di dileguarsi.
Da quella sera non l'aveva più rivista né sentita, solo la certezza che lo leggeva e che lo amava gli avevano dato il coraggio e la forza di scriverle per circa un anno, per duecento cinquantotto lettere.
Ma quella sera, al buio, con il cadavere di Céline che ammorbava la stanza, si rese conto che quella fune, intessuta pazientemente di parole e d'amore, si era definitivamente spezzata. Ritornò indietro su tutta la vicenda, come da vecchi si ritorna ai ricordi d'infanzia con il dubbio di aver più immaginato che vissuto davvero.
Sulla vecchia scrivania giaceva una foto sbiadita di Franz Kafka che gli aveva regalato suo padre poco prima di andarsene. Accese un fiammifero e fissò quel viso sottile, enigmatico, quel suo sguardo ironico, beffardo.
Lo sguardo di un Buddha. Sembrava averla capita veramente lui la vita, per questo sorrideva a quel modo. Il fiammifero si consumò lentamente, poi si spense, così' anche il pensiero di lei.
Quel sorriso sornione gli aveva fatto comprendere, in un attimo, tante cose, una vita intera, e una in particolare: lei non era mai esistita.
Una certezza, solida come un blocco di granito, freddo, compatto.
Lei non era mai esistita, tutte le sue lettere non erano mai arrivate ad alcuno. Partivano bianche, senza destinatario.
Prese un altro fiammifero dalla scatola umidiccia, lo sfregò contro il muro, si accese. Aprì il cassetto, ne estrasse un lumino votivo, lo accese e lo pose dinanzi alla foto del mite Franz. Lo fissò intensamente, sorridendo a sua volta, chinò il volto su di lui, poggiando il capo sui dorsi freddi delle mani e chiuse gli occhi stanco.
Una lacrima gli solcò il volto triste e si addormentò, ma non pensò più a lei.