migliore: l'altro. O il suo atteggiamento era appositamente studiato per suscitare interesse ed avviare una piacevole conversazione, servendosi come ausilio anche della pagina letta.
Per sapere quale delle due ipotesi sarebbe risultata veritiera, rimaneva da fare solo una cosa, la più elementare: domandare. Fingere di interessarsi alla lettura di lei.
Rimessosi i mocassini, alzò un po' la spalliera del sedile e col miglior sorriso, distrattamente chiese:
- Cosa stai leggendo?
Lei, come ridestandosi da una lunga attesa, ritornò alla copertina del libro, fece per leggerlo e rispose:
- Dedalus di James Joyce.
Lui riprese:
- A che punto sei arrivata?
Rimasi un po' titubante, poi riprese:
- Alla fine, quando c'è quel dialogo fra lui e la madre. La madre gli rimprovera di aver letto troppi libri e che questi gli hanno fatto male. E nel frattempo gli prepara la valigia. Allora Dedalus le risponde che lui ha letto poco e capito ancor meno.
L'aveva detto tutto d'un fiato, fissandolo attentamente attraverso i suoi cerchi dorati e battendo lievemente, ritmicamente le palpebre. Però, mentiva spudoratamente. Quel brano infatti era alla fine del libro e lei teneva il dito alla metà del volume.
Probabilmente aveva letto quel passo dal quarto di copertina o dall'introduzione, oppure aprendo casualmente il libro. Si, lei mentiva, quindi, e gli aveva teso una femminina trappola. Da buon lettore, quale era o si credeva, se ne accorse subito, ma fece finta di nulla, non gli interessava proprio umiliarla, se non avesse avuto però quel musetto adorabile, l'avrebbe volentieri fatto.
Era una questione di sana giustizia.
L'aveva letto lui, Joyce, e veramente, nella traduzione mai superata di Cesare Pavese. Quella invece che lei teneva tra le mani era una di quelle edizioni super-economiche che la gente compra e che non legge mai, pessime traduzioni per risparmiare sui diritti d'autore dei traduttori.
Cercò velocemente qualche argomento per potere avviare con lei una piacevole conversazione su Joyce, che non risultasse troppo noiosa e accademica. Rapidamente gli passarono per la mente le pagine che su Joyce avevano scritto Svevo, Pound e Miller.
Si soffermò per un momento sulla geniale intuizione di Thomas Merton sull'essenza tomista della poetica joyciana. Ma, indubbiamente, lei non lo avrebbe seguito e lui avrebbe proseguito da solo, saltando da un a citazione all'altra, fino al termine del viaggio. E questo voleva evitarlo.
Così' le rivolse la classica, banale, inutile domanda, la più stupida che si possa rivolgere ad un lettore che riemerga da una lettura della qualità di quella di Joyce.
- Ti piace, che ne pensi?
Buttò lì la domanda, quasi distrattamente e lei la raccolse quasi impacciata nella semioscurità del pullman.
- Penso che, come scrittore, sia molto bravo, però è un pochettino confuso, ecco, sembra talvolta che...
Parve quasi sospesa in attesa che qualcuno la imbeccasse.
- Ecco, sembra che...
Riprese timidamente. Non sapeva, pur volendolo veramente, venirle in aiuto, completare la sua frase. E poi, non poteva fare questo al povero Joyce!
Così, come a farle intendere che aveva compreso il suo pensiero, le disse:
- Credo che tu in fondo abbia ragione. Anche la Woolf ha dato un giudizio di questo tipo.
Giocava maledettamente sporco. Si guardò attentamente intorno per vedere se qualcuno li stesse ascoltando, ma scorse solo un vecchietto che dormiva a bocca aperta con la testa riversa all'indietro. Nessuno poteva ascoltarlo. Poteva continuare a barare bassamente.