Sulle rive di un antico mare
racconto di En
Stava fuggendo e cercava di allontanarsi nella radura, guardò
allora verso cielo e la vide.
Vide l'aquila che volava in alto, possente nella sua regalità: ne
provò inquietudine.
La vide volteggiare e lentamente abbassarsi verso di lui, adesso
era così vicina che poteva vederne bene gli occhi. Ma quegli
occhi erano scuri come il colore della notte e profondi come un
pozzo senza fine, dentro vi scorgeva il baratro dei suoi ricordi.
Ne ebbe terrore, sentì gli artigli dell'aquila conficcarsi nel suo
petto, ne avvertì il dolore e vide il sangue sgorgare fuori dalla sua
carne.
Si ritrovò seduto ansimante sul letto, i capelli erano appiccicati
sulla fronte, la maglietta bagnata, scosse il capo, si passò una
mano sul viso e sui capelli e fece un lungo respiro: ancora quel
sogno, quel sogno che era diventato ormai un appuntamento fisso
con la notte.
Si alzò, andò in bagno e si mise sotto l'acqua: sapeva che per
quella notte non avrebbe più dormito.
L'alba lo raggiunse seduto alla sua scrivania, il pavimento e il
tavolo erano pieni di fogli. In ognuno aveva scritto un nome,
sempre lo stesso nome, ora grande ora piccolo, ora sottolineato ora
sillabato, ma sempre lo stesso nome, per decine di volte sempre lo
stesso nome: IOLE. Ma che senso aveva tutto questo? Perché quel
nome? Da dove saltava fuori?.
Per quanto si sforzasse di ricordare non aveva conosciuto mai
nessuna Iole.
Si rivestì e si preparò per uscire, il suo lavoro lo attendeva.
Guardava l'acqua che gli correva lungo le braccia mentre le
massaggiava col sapone, poi aspettava che l'acqua portasse via la
schiuma e mentre eseguiva quei gesti quasi come un rito non
poteva fare a meno di pensare a quel nome e a quel sogno.
Aveva la sensazione di un oscuro presagio, di realtà sconosciute e
lontane che cercavano di affiorare; ma lui non credeva a queste
cose e scacciò quei pensieri che pure lo turbavano.
- Guarda che già dorme - disse il suo collega. Allora si scosse,
indossò la vestaglia e i guanti e si avviò. Guardò il volto del
paziente semicoperto dal telino dell'anestesista come ad
assicurarsi che tutto fosse a posto e quindi cominciò l'intervento.
La mattinata scorreva tranquilla tranne che per le sollecitazioni
della caposala che raccomandava di finire assolutamente alle 14
come da disposizioni date dall'alto.
Verso le tre del pomeriggio lo cercarono con urgenza dal pronto
soccorso ove era giunto un traumatizzato grave.
Era una settimana che non vedeva la figlia, dopo il divorzio la
ragazza viveva con la madre, era molto legata a suo padre e anche
lui era molto legato a lei: suo unico e immenso bene.
Adesso la sua unica figlia sedicenne era su una barella del pronto
soccorso, una moto sbandando l'aveva travolta sul marciapiede
colpendola all'addome con la ruota anteriore.
Era sudata quasi senza polso e pressione, medici e infermieri si
davano da fare attorno a lei. A stento teneva aperti gli occhi, vide
suo padre e gli disse: - Papà! - Lui si chinò baciandola sulla fronte e
le asciugò il sudore.
Capì subito che la situazione era grave si rivolse agli astanti e
disse:
- Di corsa in sala operatoria, avvisate anche mia moglie per favore. -
Non gli tremò la mano quando incise la carne della sua carne, non
perse la testa quando vide che l'addome era pieno di sangue e
mentre il collega che lo aiutava aspirava il sangue che gli
impediva di vedere, con la mano sentì che la milza era spappolata,
sulla guida dell'altra mano poiché non vedeva pose una pinza a
clampare l'ilo ma tutto quel sangue non poteva venire fuori solo
dalla milza, aveva già visto che il fegato era lacerato.
- Cristo! - esclamò constatando una lesione della vena cava.
- Sbrigati a chiudere il rubinetto - diceva l'anestesista, - non la tengo
più. -
E mentre gli anestesisti si affannavano a pompare sangue lui
introdusse il tubo nella cava a superare la lacerazione e permettere
il ritorno venoso al cuore, lo solidarizzò alla vena e continuò ad
aspirare il sangue per vedere se l'emorragia s'era fermata.
L'anestesista gridò: - E' in arresto. -
Non ebbe dubbi, le scoprì il torace, incise velocemente nello
spazio intercostale divaricò le coste infilò il braccio e prese nella
mano il cuore della figlia. E lo cominciò a massaggiare e
massaggiandolo cercava di dare vita con le sue mani a quella che
invece dalla vita fuggiva.
E pensava a quando piccolo batuffolo appena nato stava tutta nelle
sue mani e alla prima febbre e a quando piccolina gli buttava le
braccia al collo. E pensava anche alle sue assenze da qualche
compleanno della figlia o all'arrivo in ritardo alla recita della
scuola, alla telefonata che all'ultimo momento aveva fatto saltare
una gita e a tante altre cose.
Pensava al suo matrimonio e ai motivi del divorzio dalla moglie e
ricordava che la figlia gli aveva detto- Ti capisco papà e ti voglio
bene. -
Pensava alla sua vita sciagurata sempre alla ricerca di quel
qualcosa che non riusciva ad identificare.
E mentre pensava e teneva quel cuore in mano passavano i minuti
e con i minuti il quarto d'ora, poi la mezz'ora: Allora pregò quel
Dio che non aveva mai pregato e chiese la vita, pregò tutti gli Dei
che conosceva ma rispose solo la morte.
Nella sala il silenzio era assoluto, tutti erano spettatori impietriti
della tragedia che si stava consumando. Poi il collega che lo
aiutava, con fermezza ma dolcemente, gli prese il braccio e gli
disse: - Adesso basta, lo sai anche tu che ormai è tutto inutile. -
Era
restio a lasciare quel cuore, aveva la sensazione di abbandonare la
figlia, alla fine lo lasciò e fece sì che il collega gli allontanasse il
braccio. E questi gli disse - Non ti preoccupare finisco io con
cura, vai pure. -
Si allontanò dal tavolo operatorio: - Grazie - disse agli astanti, - grazie
a tutti - e uscì. Si tolse la maschera e il cappello, si lavò il viso e si
guardò allo specchio. Le mascelle erano contratte ma gli occhi si
mantennero asciutti. L'intervento più importante della sua vita era
finito male.
Uscì dal reparto operatorio, fuori c'era la sua ex moglie in trepida
e ansiosa attesa, le si avvicinò scosse il capo e le disse: - Nostra
figlia è morta. -
La moglie serrò le labbra in una smorfia di dolore, strinse i pugni
e glieli scagliò contro il petto, lui l'abbracciò poi la discostò da
sé e vide uno sguardo di odio negli occhi della donna.
Uscendo dall'ospedale buttò il suo cellulare in un cassonetto della
spazzatura, arrivato a casa e richiusa la porta alle sue spalle vi si
appoggiò con la schiena, quindi il suo petto fu scosso da numerosi
singulti e finalmente pianse.
Pianse tutte le lacrime che aveva e quando le finì continuò ancora
a piangere fin quando spossato si addormentò.
E nel sonno questa volta trovò riposo.
II
E sognò di essere sulle rive di un antico mare, il calore del sole gli
dava ristoro, l'acqua cristallina si frangea sulla sabbia e sugli
scogli. L'aria era pura e tersa, il profumo della salsedine lo
inebriava, il mare luccicava come mille stelle sotto i raggi del sole
e alle sue spalle brillavano maestose le mura della città: Megara
Hyblea.
E tutto gli sembrava familiare e si trovò a camminare per le strade
di Megara che erano piene di gente, arrivò all'agorà e poi prese
con naturalezza la via di casa e lì vide Iole sua amatissima moglie
che teneva in braccio la sua figlioletta Asclepis di 4 anni. Si tolse
l'elmo sormontato da poderosa criniera, mentre Asclepis scendeva
dalle braccia della madre e correva verso di lui. Lui prese la bimba
e la fece volteggiare nell'aria e con lei raggiunse la moglie e la
baciò dolcemente. Accarezzò le lunghe chiome nere di Iole e i
ricci capelli della figlioletta e la sensazione di pace era immensa.
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