"Il mare dei tuoi occhi..." Il mare è azzurro, blu, verde vicino alla costa... i suoi occhi erano castani, anzi quasi nocciola. Che collegamento poteva esservi fra il colore del mare e quello dei suoi occhi? L'unico liquido che poteva, per colore, esservi accostato, era quello delle acque fognarie. Così come le aveva viste una volta che era passato vicino ad un tombino scoperchiato. Era rimasto tanto di quel tempo a fissare quelle acque lutulente, che d'un tratto gli era sembrato come se quell'enorme ammasso di rifiuti urbani avesse cominciato sinistramente a fissarlo, e ad attirarlo irresistibilmente nel suo perenne corso. E vi sarebbe davvero caduto se un passante non l'avesse violentemente urtato, gettandolo a terra sopra la carogna di un gatto.
Avrebbe potuto quindi scriverle "I tuoi occhi color di fogna?" Oppure, eliminando definitivamente l'idea del liquido, "I tuoi occhi sembrano noccioline essiccate". No! Ogni volta che pensava a quegli occhietti curiosi, non riusciva ad allontanare dalla sua mente l'idea della fogna. Era un'equazione: occhi = liquido, occhi nocciola = acqua di fogna.
Rimase per un po' di tempo soprappensiero, incerto. Indubbiamente era giunto ad un punto morto, una situazione di stallo.
Avvicinò lentamente la stilografica alla bocca, e cominciò prima a passarsela voluttuosamente sulle labbra, poi con vero gusto, a masticarla nervosamente con gli incisivi.
Scacciata l'idea della fogna, prepotentemente si fece strada nella sua mente una frase di Céline che da mesi lo ossessionava diabolicamente. "L'amore è l'infinito abbassato al livello dei barboncini, e io ci ho la mia dignità, io!".
Ma Céline non aveva mai amato nessuno veramente, nemmeno se stesso e se non si era mai ucciso, era stato solo perché gliene era mancato il fegato. Che ne poteva sapere lui dell'amore.
Però ciò che diceva Céline in parte era vero, l'amore rincretinisce e ci fa un po' barboncini, eccome.
La stilografica gli era esplosa in bocca, silenziosamente, macchiandogli le labbra e la lingua, e lasciandogli in bocca un sapore piacevolmente amaro. Spazientito, la spezzò in due, annerendogli così anche le mani, la avvolse accuratamente nel foglio sul quale stava scrivendo, appallottolò il tutto e lo scagliò in un cartone dove giacevano dei romanzacci gialli destinati al macero.
Guardando verso l'orologio da muro, che solerte picchiettava, si accorse che il pomeriggio era già passato e il giorno volgeva al termine.
Alzò svogliatamente lo sguardo verso la finestra e, attraverso la lieve tenda lattea, vide il disco solare che, dopo aver incendiato ogni cosa, s'inabissava ora lentamente nelle profondità della terra. Era quasi buio. Soltanto due uccelli sembravano incuranti inseguirsi, mentre attorno a loro tutto il creato taceva attonito dinanzi ala morte di quel giorno.
Socchiuse gli occhi e restò per qualche minuto pensoso, rigirandosi in mente quella frase di Céline, come per cavarne il vero succo e poi gettarne definitivamente l'involucro di parole.
Invece si mise a demolire colui che, fino a poco tempo prima, era stato uno dei suoi numi tutelari. Uccisolo, infine, gli sembrò che si stesse lentamente accasciando ai suoi piedi.
Cominciò finalmente a stiracchiarsi sulla sedia in vimini, che accompagnava ogni suo movimento scricchiolando come a condividere con lui quel casto piacere fisico che si stava concedendo dopo un'impresa utile all'umanità intera: aveva ucciso un antisemita, un folle, Céline.
Come a chiudere definitivamente quella giornata, ripensò allo scrittore. Rivide i capelli scarmogliati e candidi, le guance incavate, gli occhi accesi e lo liquidò con un coglione, proferito rabbiosamente a mezza voce.
Il cadavere ai suoi piedi parve sussultare. Adesso, solamente adesso, finalmente era solo, solo e vuoto. Il sole era definitivamente scomparso, era sera. Lo avvolse la penombra, rifiutò il suo languido abbraccio e accese la lampada da tavolo, premendo sull'untuoso tasto rosso.