Aprì il cassetto della scrivania e ne estrasse un altro foglio
profumato di carta giallina, decorata con dei fiorellini color pastello,
cercò poi un'altra penna nel cassetto, la trovò e quindi
l'aprì. Si rimise in posizione, volendo, anche quel giorno, spedire
una lettera alla sua Chiara. Ma invano. Poggiò diverse volte la
punta della penna sul foglio, come ad aspettare che i pensieri defluissero
da essa. Ma nulla.
In attesa che gli venisse qualche bel pensiero da trascrivere, scrisse
accuratamente la data, l'intestazione sulla busta e aspettò: nulla.
Ancora nulla.
Non gli era mai successo, le scriveva ormai da quasi un anno, ed ogni
giorno le aveva mandato una lettera. Cercò allora di pensare a
Chiara, ma gli apparve immobile, le labbra sottili, serrate, gli occhi
di ghiaccio, vuoti, che lo fissavano. Non riuscì ad immaginarla
in movimento. Immobile, eterea, ecco come gli appariva. I suoi lineamenti
si dissolvevano nel buio che la circondava, che la penetrava e lentamente
la divorava. Il buio dei suoi silenzi, dei suoi gesti, dei suoi pensieri.
Decise che le avrebbe parlato lungamente di ciò che aveva fatto
in quel giorno per lei. Ma cosa aveva fatto?
"Gentile Chiara,
oggi ho dato una materia all'università. Poi ho cercato di scriverti
due righe, ma non ci sono riuscito.
Ho ucciso quel coglione di Céline".
Qui si sarebbe dovuto fermare concludendo col solito:
"tuo..."
Avrebbe però anche potuto scriverle:
"Mia Chiara,
questa è la duecento cinquantanovesima lettera che ti scrivo...".
La duecento cinquantanovesima, tante ne aveva scritte, lei non gli aveva
mai risposto. Nulla, nemmeno un biglietto con due righe, una telefonata.
Nulla. Eppure le aveva scritto ben duecento cinquantotto lettere, ogni
giorno, solo a lei. Aveva cercato in tutti i modi di avere una risposta
da parte sua, aveva usato toni talmente docili da risultare mieloso, oppure
duri, provocatori, per suscitare una risposta, anche risentita, nulla.
Neanche la sua voce riusciva più a ricordare, si era persa nel
tempo. Quella stessa voce che lo aveva incantato quella sera sul pullman
sul quale si erano incontrati.
Tornavano entrambi da ***. Lui era stato male per tutto il viaggio, perché
solo dopo alcune centinaia di chilometri, si era ricordato che soffriva
maledettamente il mal d'auto. Per quasi tutto il viaggio, era rimasto
semi disteso sul sedile pieghevole, ingoiando tante di quelle pasticche,
da aver cominciato ad avvertire un gran bruciore allo stomaco. Per più
di trecento chilometri, aveva visto solo il soffitto di stoffa lurida
del pullman, non badando per nulla agli altri passeggeri.
Come si accorse dopo, lei sedeva sul sedile posteriore. Dando l'impressione
di leggere un libro, al buio. Era assai carina, ma lui stava troppo male
per accorgersi di lei. Riusciva, in quel momento, a pensare solo a Scorsese
e al suo film L'ultima tentazione di Cristo. Lui non era un credente,
si riteneva troppo intelligente per esserlo. Però in quel preciso
frangente, una sottilissima intuizione lo folgorò.
Sorsese era un grandissimo regista deficiente. Se non lo fosse stato,
non avrebbe girato un'ingenuità di quel tipo. Perché, quando
un uomo sta male e soffre veramente, ha solo un desiderio, che il dolore
gli passi presto.
Pensare a una donna?
Come farlo dall'alto di una croce?
Anche Scorsese, in fondo, era solo un coglione che un'orda di idioti senza
cervello aveva proclamato "maestro".
Verso gli ultimi cento chilometri, aveva iniziato a sentirsi meglio, la
testa si era fermata finalmente sul collo, era scomparso il senso di vomito
ed aveva notato quella graziosa ragazza con lo sguardo fisso sulla stessa
pagina da ben trecento chilometri.
Osservandola bene, si potevano formulare due ipotesi. O la ragazza era
talmente stupida da metterci ben tre ore per capire una pagina, allora
dopo un primo approccio, costata l'insipienza della stessa, si sarebbe
girato disgustato mandandola in un mondo
|